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lunedì 28 luglio 2014

DOMINE, NON SUM DIGNUS!

Domine, non sum dignus!
E la finiamo lì con l'incensata, per favore: sono un po' troppo laico per l'incenso, anche se da ragazzo ne ho aspirato a fiumi, e non precisamente in chiesa…
Ringrazio il Gatto e la Volpe prima di tutto per la visita, e poi (e chi dei due…) per l'inaspettato e lusinghiero ritratto: sono io, a essere lieto e onorato della visita, e gioioso della conoscenza e della piacevole serata (e pomeriggio).
Questo per dire che, chi vorrà, un salto a casa mia per una sigaretta, un caffè, un aperitivo, e un giro di do (e non solo) sarà per me un piacere segnalato. Credo infatti che, in attesa delle riunioni plenarie, che poi capita sempre qualcosa tra i piedi (a me quest'anno un'ernia del disco, per non star lì a lesinare), qualche incontro piccolo, sfruttando le vicinanze geografiche, si potrebbe fare. O, per lo meno, mi piacerebbe, e mi candido fin da subito per tesserne le fila.
Per quanto riguarda la serata musicale (descritta da Perry con precisione e un po' di sfumato, per esempio sulla difficoltà pratica creata per  un ascolto piacevole da una sala che, tra l'umidità da paludi di Maracaibo dell'esterno, e il calore umano di 150 persone stipate all'interno, toglieva davvero il fiato, e non solo metaforicamente) vi allego come sempre in questi casi il mio articolo per la Gazzetta di Parma, e poi una telegrafica considerazione conclusiva.
Prima una foto di John Renbourn proprio dentro la sala del castello…



Ecco l’articolo…

MUSICHE PER ALTRI TEMPI: JOHN RENBOURN AL CASTELLO DI TORRECHIARA

Una “leggenda della chitarra”, come viene spesso presentato: una fama non usurpata, se si pensa al suo oltre mezzo secolo di musica passato sui palchi e nelle sale di registrazione di tutto il mondo a tracciare un itinerario artistico in splendida autonomia d’invenzione: stiamo parlando di John Renbourn, il chitarrista-compositore inglese prestigioso ospite sabato scorso del Festival di Torrechiara in un applauditissimo concerto.
Tutto nasce, anche per John Renbourn, nei primissimi anni ’60, in un’Inghilterra che, dal punto di vista musicale, era un ribollire vulcanico tra skiffle e r&r prima, e poi beat, blues, r&b e jazz, con i risultati che ben sappiamo: tra questi, un suo posticino di molto influente nicchia si era ricavato il folk revival, dominato da una serie di artisti che influenzeranno profondamente gli anni a seguire. E John Renbourn in questa nicchia svolge un ruolo ben presto primario, mobilissimo: da solo, e soprattutto in un interscambio continuo con artisti altrettanto importanti che segneranno la sua intiera futura carriera e, assieme, quella del new folk inglese. Stiamo parlando, per limitarci, almeno a Bert Jansch (chitarrista-cantante-compositore come lui) e Jacqui McShee (cantante) coi quali, e insieme a Danny Thompson e Terry Cox (non per caso provenienti dall’influentissimo Alexis Korner's Blues Incorporated), fonda i mitici Pentangle, cioè il complesso che il concetto di folk ha rinnovato dalle fondamenta, arricchendolo di un vocabolario prima non solo sconosciuto, ma considerato spurio.
Lungo questi binari, il folk, il patrimonio antico britannico, il blues e il jazz, legati insieme da una profondissima conoscenza strumentale anche classica, il viaggio musicale di John Renbourn continua ancor oggi, tra innumerevoli collaborazioni, concerti, dischi.
Di questo mondo così sfaccettato il concerto di Torrecchiara è stato esemplare. Due sono gli aspetti emersi più evidenti: il dominio strumentale (Renbourn, che certo non ha più nulla da imparare del suo strumento, è il contrario di un virtuoso, il suo suonare non ha nulla dell’apparire, ma molto della sostanza) e quindi il pensare ai pezzi da compositore prima ancora che da chitarrista, e la leggerezza con la quale egli offre questa ricchezza di raggiungimenti, la voglia e la capacità di non avere nulla da dimostrare, ma molto da dire, invece. Un bellissimo viaggio tra rivisitazioni folk, blues, ballate antiche e nuove, country & western, tra brani solo strumentali e cantati, sfaccettato e ricco come la personalità musicale e umana di questo vero uomo del rinascimento.

vincenzo raffaele segreto

Per finire, un paio di considerazioni. Ma prima un'altra foto di Renbourn al Castello



Come spero di aver fatto capire nell’articolo, John Renbourn non è un “semplice” virtuoso della chitarra, o meglio, non suona da virtuoso, ma da compositore, e in questo senso, se mai, è un virtuoso, nel caleidoscopico suo mescolare le carte lasciando trasparire in una giga celtica, un’armonizzazione blues o un ritmo jazz, pur riuscendo a mantenere un saldissimo controllo sulla sua struttura complessiva. E’ più di cinquant’anni che suona da professionista, circostanza da tenere in considerazione. Mi sono andato a vedere su iutub un po’ di suoi video sparsi nel tempo. Il suo chitarrismo è molto ben conservato (non è mai stato uno da dita veloci, o da effettacci), quel che è cambiato, a mio avviso, è la sua attenzione a una maggiore semplicità espositiva, a un certo bisogno comunicativo più diretto (da cui forse deriva una maggiore percentuale di brani cantati), alla sua nonchalance rispetto a una nota sbagliata o ad altri aspetti tecnici del concerto (tra i quali anche l’amplificazione). Aspetti, questi ultimi, sui quali abbiamo abbastanza chiacchierato con Perry e il Reverendo, chiacchierato in senso dialettico, intendo…, sui quali mi piacerebbe risentire un loro pensiero, e anche, magari, aprire un breve dibattito con tutti i cookers interessati.
Renbourn appartiene (se avesse un carattere diverso da quello del dolcissimo poeta scozzese che è) si potrebbe dire “sfacciatamente” a quelli che del lato tecnico-effettistico del loro aspetto di concertisti, un po’ se ne fregano: ha una chitarra di un liutaio del suo paesello, una OM cutaway che evidentemente gli dà garanzie e comodità, un piezo artigianale, anch’esso molto local, attacca il jack a un impianto strastranormale, e suona. A lui interessa la musica che vien fuori, e attualmente, di questa musica, interessa soprattutto quest’aspetto di diretta comunicazione d’emozioni. Ecco, per chi ha in mente la sofisticatissima, radicale esplorazione dei Pentangle, oggi siamo su altre coordinate, senz’altro.

A me il concerto è piaciuto moltissimo, non so se si è capito…
In fine: salute, e saluti, a tutti!

vincenzo

25 commenti:

  1. Potrei ribattere "certe dignus es", ma lasciamo perdere il dialetto.
    Mi offro volentieri per aprire il dibattito, visto che avevo espresso a Vince qualche perplessità sul concerto, ma senza entrare davvero nel merito. Ci provo ora.
    Onestamente non conosco bene la storia di Renbourn e non sono in grande sintonia col cosiddetto folk progressive (per quel che vale un'etichetta al di là della sintesi) ma chi mi conosce sa che non ho preclusioni musicali di sorta. Dunque mi sono avviato al concerto molto ben disposto, a mente leggera, come un curioso e attento ascoltatore onnivoro. Ma già questo è sufficiente per creare uno scarto notevole tra quelli come me e i conoscitori dell'artista. Sicuramente più indulgenti per la stima verso l'artista, proprio in virtù delle cose che io non conosco. La mia percezione "ignorante" di Renbourn, mi ha portato necessariamente a concentrarmi sul piano strettamente musicale, non dico la mera tecnica esecutiva, ma quantomeno la sua padronanza del linguaggio strumentale da cui, in virtù della sua fama, speravo che sarebbe poi filtrata la parte più profonda, quella della sua poetica. La cosa non è avvenuta. Ho percepito la cultura musicale dell'artista e gli echi di tante influenze musicali nobili: le ballate medievali, il blues, qualche accento jazz e pure il tono "scanzonato" con cui Renbourn cucinava tutti gli ingredienti, ma ho colto anche una approssimazione a tratti fastidiosa. Non si tratta di "tecnicismo", parlo di cose basilari. Quando non si è in grado di tenere il tempo e ci si sposta dal battere al levare ogni manciata di battute, in brani che palesemente non prevedono rallentamenti o accelerazioni espressive, c'è qualcosa che non funziona. Quando si esegue il medesimo passaggio più volte e sempre inciampando, c'è qualcosa che non funziona. Quando ci si presenta come strumentista raffinato e non ci si cura sufficientemente del proprio suono con un risultato piatto e monocorde, c'è qualcosa che non funziona. E che distrae.
    D'accordo, puoi anche fregartene di tutti questi aspetti, considerarli "superfificie" e chiamare lo spettatore alla densità delle tue abilità compositive, ma se il tuo essere lì per comunicarle attraverso l'esecuzione non conta più, tanto vale ascoltare insieme una bella incisione e parlarne con l'autore. Da questo pur parziale punto di vista, ho avuto l'imbarazzante impressione che Renbourn si rivolgesse ai propri conoscitori, a quelli che erano lì per celebrarlo perché già conoscevano la sua poetica, e dunque non a me. Negligenza o impossibilità a fare altrimenti? Credo che qui stia il punto. E sono giunto alla indulgente conclusione che probabilmente Renbourn è invecchiato male, che gli acciacchi dell'età non gli consentono più di padroneggiare lo strumento e il linguaggio esecutivo con la padronanza di un tempo. Cosa che i suoi fans sono certamente disposti a perdonargli in virtù dei suoi nobili trascorsi. Più difficile per chi era lì armato soltanto della più disponibile curiosità e del rispetto che si deve a un artista famoso. Un rispetto, questo sotto sotto è il punto vero, non del tutto contraccambiato.

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  2. Non conoscevo John Renbourn e non sono molto informato circa sua lunga, sterminata carriera. La serata era l'occasione giusta per colmare la mia lacuna. Ma devo dire che non mi è stato possibile farlo in una concerto come quello a cui ho assistito.
    Primo problema, la location. Seppur prestigiosa (una sala del castello tutta affrescata), è stata improvvisata all'ultimo momento a causa di un' acquazzone prolungato ed insistente, e aveva una acustica non proprio adatta, condizionata dalla dimensione lunga e stretta della sala e dall'inevitabile riverbero dei muri spogli. L'umidità ed il calore eccessivo inoltre devono aver disturbato Mr. Renbourn almeno quanto me.
    Altro punto a sfavore è, a mio parere, la scelta minimale di una amplificazione "fatta in casa" per lo strumento e la poca cura nella scelta dell'impianto audio dietro il paravento che, un po' immodestamente, "tanto è la mia musica ciò che conta". Non tutti conoscono la sua musica e, in un concerto di sola chitarra e voce, il suono deve poter arrivare pulito, al meglio delle possibilità tecniche oggi disponibili e che certamente Renbourn aveva la possibilità di adottare.
    Qui la forma diventa sostanza e, non amando il virtuosismo fine a se stesso, tanto più devo essere emotivamente coinvolto dalla pulizia del suono per capire e assaporare fino in fondo il linguaggio dell'artista. Peccato. Sarà per un'altra volta anche se il signor Renbourn, a tavola, sorrideva sornione dall'alto dei suoi settant'anni e dietro il bordo del calice di Chianti (...nice wine!)

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  3. Grazie Perry! E grazie due volte: per aver accolto il mio invito a continuare su queste pagine quel piccolo dibattito già iniziato a tarda sera sabato scorso, e per aver esposto le tue valutazioni con tanta lucidità e con tanta profondità mettendole a disposizione di tutti noi.
    E infatti, grazie a queste tue righe, siamo arrivati al nocciolo (o almeno a uno dei noccioli) di questa discussione, il cui argomento è, almeno per me, molto importante: cioè quello che hai da dire, e come lo dici (ovvero, come lo devi dire, una volta che ti sei messo di fronte a un pubblico). Argomento enorme e dibattutissimo in àmbiti anche molto molto più dottrinali del nostro, e per il quale premetto che forse anche in questa, come in altre riflessioni, non c'è una sola soluzione, anche solo per il fatto che approcci, valutazioni, forse già soltanto i gusti, danno soluzioni diverse.
    Cerco, alla luce delle tue considerazioni, di resettare in qualche modo la mia riflessione su John Renbourn. Al di là del suo ruolo all'interno di un arco evolutivo di certa musica, un ruolo che ormai è storicizzato, mi sono trovato a pensare, facendo un "ripasso" della sua musica, che quella per la quale è forse più considerato fondamentale (cioè il periodo dei Pentangle), oggi, pur conscio che essa ha fatto voltar pagina a un'idea di folk che tantissimo ha fruttato in lungo (nel tempo) e in largo (in quanto a situazioni, musicisti), pure essa oggi m'interessa meno. Non meno importante in assoluto, si badi bene, ma meno importante per me, cioè la sento meno vicina. La considero troppo legata a quel periodo, cioè a giovani, radicali musicisti che davvero volevano cambiar qualcosa che amavano, ma nella quale volevano innestare uno "spirito del tempo" che in qualche modo piegava il loro far musica verso un intellettualismo che, a quella musica, sento oggi (allora sarei stato forse più indulgente) un po’ estranea. Il suo percorso, che conosco un po’, ma certo non a fondo, da allora si è frastagliato in molti rivoli, mantenendo, e oggi accentuando, un aspetto di “direttività”, di comunicatività, che certamente, come tu dici, se lascia passare certe cose, ne perde altre.
    Forse il percorso (anche calante, per certi aspetti) di Renbourn, si è avvicinato a quello mio attuale: ma oggi io, come ascoltatore, raramente sento il bisogno dell’esecuzione impeccabile, ma vado a cercare, prima di tutto, la naturalezza, la (apparente) semplicità dell’esposizione, il cuore di quello che l’artista ha da dire. Qualche decennio di vita lavorativa e di riflessione intellettuale e affettiva passata a fianco di grandi musicisti classici, per i quali (sto tagliando con l’accetta, sto troppo semplificando, e me ne scuso con loro e con voi) il dato tecnico è dato per scontato, anche ai livelli di maggior necessità virtuosistiche (in parole povere, anche se fai il più difficile dei Capricci di Paganini o il più stupefacente Studio di Liszt, se solo sbagli una sola nota è meglio che non ti presenti a teatro): come a dire che il lavoro vero inizia dopo, come a dire che il difficile viene dopo…, mi ha fatto lentamente virare di bordo, almeno nella “nostra” musica, per la quale sempre di più vado alla ricerca di una consonanza (dire spirituale è esagerato, ma si va verso quella direzione) che è al di fuori del dato tecnico. Sarà per questo che ancor oggi il mio amore va verso i vecchi allegri dinosauri: per tutto quello che dici tu, e poi per nostalgia (nel mio caso senz’altro) e per altro ancora. Oggi è forse più facile trovare degli ottimi chitarristi, completi e sicuri nella tecnica e brillanti incantatori sul palcoscenico, che buoni compositori.

    (segue…)

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    1. Per concludere, almeno per ora, questo dialogo che mi appassiona, cerco di condensare quel che penso in una frase sola, che rimarrà storica per la sua limitatezza: non ho mai pensato a Renbourn come a un chitarrista. Tommy Emmanuel, invece, è “solo” un chitarrista: con tutte le diecimila virgolette metaforiche e non, che ci vanno e che ci devono andare, mi raccomando, e dato per scontato che come chitarrista il secondo non puoi neanche provare a discuterlo. E detto questo, metto la testa sotto la ghigliottina.
      D’altra parte, mi piace John Fahey!
      Ancora un grazie, ancora un saluto: a tutti!

      (E grazie anche al Reverendo, per aver accettato anch'esso di esporre la sua riflessione: è solo dalle differenze e dal dialogo che si riuscirà a cavar fuori qualcosa di buono. E non sto certo parlando di chiare e basta!)

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    2. Bah , non essendo stato presente devo rifarmi alle vostre considerazioni che ritengo attendibili , in tutti i casi....certo , il filtro del gusto personale secondo me comunque conta molto , si può essere onestamente obbiettivi ma se un artista piace abbiamo una scorta di indulgenza da spendere. E lo stesso vale per il contrario. Vincenzo , la tua chiosa finale " d'altra parte mi piace john Fahey " è illuminante ! Anche a me , e ad andrea , piace Fahey , e renbourn , da sempre, Mirco , che stimo in maniera indicibile , ha invece altri sacrosanti gusti , e quando Andrea a postato una cover del buon fahey , a lui non è piaciuta. A me moltissimo. Quindi , diciamo che le ragioni , negli ampi discorsi toccati , sono molteplici : tecnica , rispetto del pubblico ma anche storia e passione , tutto opinabile , tutto giusto , ma poi sul gusto personale , su cui non si sputazzellam ( Totò docet ) si riscontrano opinioni e sentimenti diversi. E meno male , aggiungo io !!!!
      Ho visto Renbourn dal vivo negli anni 70 , un grande , lìho sempre seguito e stimato , una storia artistica enorme , non può essere di certo un bluff , magari è vero che l'età porta , oltre alla saggezza , problemi fisici con cui rapportarsi , ma che non intaccano la gioia del suonare davanti ad un pubblico per condividere. Poi ci sarà chi apprezza e capisce conoscendo l'artista , e chi invece basandosi sul presente storce il naso. Tutto normale.....

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    3. Si, giusto. Infatti ho premesso che non sono in grande sintonia con quel genere musicale e il mio approccio "ignorante" sull'artista mi metteva in una condizione di ascolto particolare. Ma al di là dei gusti personali (ero comunque ben disposto), ho trovato sorprendente che un compositore-chitarrista così famoso avesse un playing così approssimativo. Ripeto: non si tratta di tecnicismo. A un busker che suona Renbourn per strada e va spesso fuori tempo, è approssimativo in molti passaggi e ha un suono che si mangia le dinamiche glie la perdono, ma non a Renbourn in persona!
      Qui non si tratta più di poca sintonia con l'autore. Per questo mi chiedevo: negligenza o acciacchi della vecchiaia?
      Per rimanere nel campo dei compositori-chitarristi con una poetica non dico simile, ma nemmeno tanto distante, ricordo di aver sommariamente commentato con Max: ma questo uno come Franco Morone, che non è "un mito", se lo mangia a colazione!
      Ripeto, ci tengo: non è questione di tecnicismo, ma di una sensibilità sullo strumento e di una attenzione a tutto il pubblico, fans e non, che poi permette di far arrivare ai più la propria poetica. In Renbourn quella attenzione non l'ho sentita, anzi! Incuriosito dalla cosa sono andato a vedermi sul tubo alcune cose sue recenti e ti dirò che ho ritrovato le stesse approssimazioni, cioè Renbourn adesso suona così!

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    4. ...ah, grazie per la stima indicibile, che è ricambiata!

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    5. te vojo bbene :-))))) comunque Morone E' un mito......

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    6. ... son d'accordo ma, per dire, su uichipidia Renbourn c'è e Francone no (purtroppo).

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    7. M'introduco con infinita precauzione nell'abbraccio d'amore tra Perry e Stefano, per citare un fatto che richiama a pennello la definitiva sentenza del principe de Curtis, e che potrebbe aiutare a sentirci tutti fratelli nelle nostre differenze.
      «Nel primo atto, solenne processione con un continuo scampanio. Nel secondo atto un tale viene torturato tra urli orrendi e un altro pugnalato con un acuminato coltello da pane. Nel terzo atto di nuovo immenso scampanio su una veduta di tutta Roma dall'alto di una cittadella — di nuovo un'altra diversa serie di campane — e un tale viene fucilato da un plotone di soldati. Prima della fucilazione mi sono alzato e sono andato via. Non occorre aggiungere che il tutto è messo insieme come sempre con abilità da maestro; al giorno d'oggi ogni scalzacane sa orchestrare in modo eccellente».
      Una bella stroncatura, non c’è che dire! A farla era Gustav Mahler, cioè uno dei più grandi compositori (e, per vivere, direttore d’orchestra ) di tutti i tempi, colui che ha profondamente rivoluzionato il linguaggio sinfonico del Novecento. L’oggetto della sua acida penna non era un qualunque giovanotto, uno speranzoso operettistucolo italiano da quattro soldi che cercava di farsi strada nel mercato teatrale con espedienti ed effettacci da quattro soldi: era Giacomo Puccini, già celeberrimo a quel tempo; e l’opera in questione era Tosca, cioè una delle più conosciute, amate e frequentate dai pubblici di tutto il mondo, da quando fu rappresentata la prima volta a oggi compreso (e quasi quasi mi sento di prendere impegni per il futuro…).
      Eppure evidentemente Mahler odiava Puccini, odiava Tosca: e certo, non perché non l'aveva capita. E' che non amava quello che per altri era proprio il suo bello, e che la sua sensibilità rifuggiva. Una sensibilità che, si badi bene, gli faceva amare moltissimo Cavalleria rusticana, che per molti è la quintessenza dell'urlo verista e dell'effettaccio e che, in quanto a coltelli…
      Ma si ritorna nell'àmbito della sputazzellam… Quello che importa, per me, è dare risposta alle proprie differenze in modo onesto e, se possibile, circostanziato: troppo facile dire a me non piace. Perché? Perché no! A me questa nostra piccola discussione è piaciuta molto proprio nelle cose sulle quali non ero d'accordo. "Trahit sua quemque voluptas", scrisse una volta Virgilio, "A ognuno piace quel che piace", credevamo volesse dire. Poi scoprimmo che il suo significato era un altro, del tipo "Ognuno viene trascinato dalla sua passione".
      Ad sputazzellam, appunto: per finirla in dialetto, o col dialetto, come avrebbe detto l'amico Perry.
      Cari amici, salute, e saluti: a tutti!

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    8. Ah! Quanto mi piace questo gossip storico-culturale!

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    9. Divertiamoci, sì, ma seriamente…!

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    10. Giustissimo! Ognuno ha il sacrosanto diritto di esprimersi ad sputazzellam se si prende l'impegno di motivarlo onestamente, senza il timore di incorrere in scomuniche stupide quanto le sentenze gratuite!
      E qui lo facciamo seriamente, non come capita troppo spesso altrove, per avviare infantili duelli polemici con l'unico scopo di averla vinta. Signori si nasce e noi lo nacquimo!!!

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  4. Il post di Mr_Pone è arrivato mentre rispondevo a Perry, e leggendolo raccolgo da lui un altro tema che mi sembra molto interessante. Mi permetta di citarlo in parte: "il suono deve poter arrivare pulito, al meglio delle possibilità tecniche oggi disponibili e che certamente Renbourn aveva la possibilità di adottare. Qui la forma diventa sostanza e, non amando il virtuosismo fine a se stesso, tanto più devo essere emotivamente coinvolto dalla pulizia del suono per capire e assaporare fino in fondo il linguaggio dell'artista".
    Soprattutto m'interessa il punto "Qui la forma diventa sostanza": no, mi permetto di andare oltre. La forma è sostanza. Cioè la sostanza della musica è percepibile solo attraverso la forma con la quale si esprime. E' la magia, ma anche la condanna, dell'arte. Ma la musica ha un'altra benedetta condanna, rispetto alle altre forme artistiche: che ha bisogno degli interpreti. E, addirittura, ma qui scadiamo proprio nel brutale (sto scherzando…) dei fonici. E dato che tutto conta, come in una chitarra, dalle corde ai legni, la discussione s'incasina sempre più…! Magnifico!

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    1. Parlando di interpreti (perché in fondo questa è la pecca che ho rilevato, un Renbourn in difficoltà ad interpretare per comunicare a tutti), mi viene questa immagine un po' malinconica: i vecchi che si liberano delle convenzioni e fanno e dicono ciò che gli viene senza curarsi delle conseguenze, perché costruire relazioni è un progetto per il futuro e la cosa non li riguarda più.
      Il buon vecchio John mi dava quell'impressione lì: eccomi, di nuovo, chi mi conosce sa già quanto ho dato e ora campo per me stesso, come viene, così è se vi piace! :D

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    2. bingo.... mi sa che hai centrato il bersaglio: l'attenzione verso chi non ti conosce è un progetto per il futuro. E il futuro deve essere davanti, non come diceva il mio vecchio cantante "abiamo un grande futuro alle spalle"

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  5. Mi avete messo una curiosita` addosso incredibile, peccato che non avete registrato nulla, avete notato se qualche spettatore stava filmando? Chissa`, magari su youtube riesco s trovare qualche video decente per farmi un` idea. Io pero` vorrei restare piu` terra terra, nel senso: non potrebbe essere stata una serata "no", capitano a tutti, ed i presupposti c'erano tutti, come ha detto Max, all'interno della sala faceva caldo, e c'era parecchia umidita`, inoltre la giornata era piovosa, e si sa che l'umidita` non va d'accordo ne con le chitarre e ne con i chitarristi, per le chitarre sappiamo tutti quali sono gli effetti di una eccessiva umidita`, prova ne e` che la splendida Martin di Pone, a Sarzana all'aperto, rendeva al 25% delle sue possibilita`, e per ilchitarrosta, il problema nasce, quando manca il feelling con lo strumento, che non riesce a fare da tramite al proprio semtire, e la frustrazione di cio`, fa il resto. Ovvio che questa mia e` una interpretazione del concerto , sulla base di semplici supposizioni, visto che (purtroppo), non ero presente :-))

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  6. Beh, io non ci ho capito molto, però ve siete fatti un bel viaggio!

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  7. beh, mica male come viaggio, no? con questa pioggia, poi...

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    1. questo strano luglio di fingercooking era cominciato in modo un po' floscio, ma ora state infilando una serie di articoli davvero memorabile, questa condivisione è davvero piacevole per la mia giornata strapiena di cose da consegnare prima delle ferie.

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    2. Son viaggi formativi e asciutti! :D

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  8. … e gli eventuali liquidi, contengono alcool!

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